(di Paolo Margari)

L’annuncio di ricerca lavoro per call-centre inbound comparso fra le news della Facoltà di Economia di Lecce il 27 marzo 2014 e silenziosamente rimosso il 31 marzo dopo che la notizia ha suscitato sdegno in rete.
Non credevo ai miei occhi e invece non è lo scherzo di un hacker buontempone, l’annuncio di lavoro comparso su vari siti dell’Università del Salento, incluso quello della Facoltà di Economia come si vede dall’immagine in alto:
http://www.economia.unisalento.it/news/-/news/viewDettaglio/45889408/840491
Con tutto il rispetto per chi lavora nei call centre (un’esperienza che ho conosciuto anche io per un breve periodo dopo la laurea), trovo deprimente che un annuncio del genere, peraltro redatto in modo approssimativo, sia finito sul sito ufficiale di un’istituzione che, almeno sulla carta, ambisce a formare menti critiche e non operatori di call centre.
Elogio dell’etcetera – L’annuncio è molto vago tanto nella specializzazione richiesta (va bene qualunque laurea) tanto nelle funzioni che si andranno a svolgere (eloquente l’etcetera alla fine). Tramite una condivisione virale sui social, già poche ore dopo la pubblicazione l’annuncio è balzato agli occhi di numerosi fra studenti ed ex studenti dell’ateneo leccese, i cui commenti hanno dimostrato un profondo sdegno verso l’accaduto. Simili annunci non fanno onore al sistema universitario che rischia di mostrarsi come una fabbrica di aspiranti precari impiegati in mansioni di basso profilo. Se l’esito degli studi è questo, allora è plausibile che alcuni neodiplomati finiscano con l’arricchire la pericolosa categoria dei NEET (acronimo di una definizione inglese che sta per Non Studia e Non Lavora). Ovviamente si escludano dal computo i fortunati che hanno già qualcosa di pronto ad attenderli in loco o i tanti (compreso il sottoscritto) che emigrano, non sempre con entusiasmo, andando incontro ad alterne sorti.

Copia/incolla a manetta: oltre al copy anche l’impaginazione lascia a desiderare.
Dalla tesi all’inbound il passo è breve – Sebbene in Italia persista la farsa del valore legale del titolo di studio, nei fatti, anche solo guardando alle opportunità lavorative che si prospettano a un neolaureato, si capisce che per i datori di lavoro ‘importanti’ le università non sono tutte uguali. Lecce, nonostante numerose e frequenti eccellenze in vari settori, purtroppo non ha mai goduto di una fama nazionale di prima della classe, e vicende come quella descritta in questo articolo probabilmente non aiutano a migliorare la situazione.
Non pervenuti per vocazione – La periferia del sistema universitario italiano, nonostante le citate eccellenze, ancora oggi è farcita di proclami autoreferenziali e pare si preoccupi più dell’acquisizione di matricole che del loro destino da studenti prima e laureati poi. Nel complesso, secondo il prestigioso Times Higher Education World Ranking 2013-2014 è ancora incapace di esprimere un ateneo fra i primi 200 al mondo. Si consideri inoltre che non sempre i dati vantati sono veritieri: ad esempio l’indice che tiene conto del numero di laureati che trovano lavoro entro un certo periodo dal conseguimento del titolo, purtroppo contempla impieghi non all’altezza della formazione ricevuta. E’ giusto fare gavetta, accettare qualunque occasione, ma con la prospettiva di crescere, non di arenarsi in un pantano generato dallo stato di necessità e dall’illusione che con gli anni cambierà qualcosa.
Speranze vane – Come molti propongono, da anni, in Italia si dovrebbe abolire il valore legale del titolo di studio, equiparando il sistema nazionale a quello di altri paesi in cui le istituzioni accademiche godono e distribuiscono maggiore successo. Inoltre si dovrebbe consentire il licenziamento di dipendenti e ‘baroni’ che performano al di sotto di rigorosi standard, abolire i concorsi pubblici, spesso truccati o comunque indirizzati già sul nascere e aprire a una vera meritocrazia fondata sull’impact factor dei candidati (un indice internazionale presumibilmente oggettivo che indica popolarità e autorevolezza delle pubblicazioni scientifiche). Per non vanificare queste aspettative, il movimento ‘rivoluzionario’ di indignazione, proposta e cambiamento, oltre che dagli studenti potrebbe e dovrebbe partire dai docenti che rappresentano le eccellenze del sistema.
Il diktat della necessità – Alcuni laureati, per il bisogno di un reddito di ‘sopravvivenza’, hanno intrapreso la strada di un lavoro non all’altezza della propria formazione e delle proprie aspettative. Auguro loro di emanciparsi quanto prima da una condizione che spesso vìola pesantemente la dignità dell’essere umano, per non parlare di capacità e ambizioni, lentamente calpestate a morte dallo stato di necessità. Per chi vive nelle regioni del Mezzogiorno si apre la strada dell’emigrazione (quello che ho fatto al pari di tantissimi altri coetanei) oppure della collezione di ulteriori titoli di studio nella costosa formazione post-laurea, spesso e rivelatasi un indefinito parcheggio, fonte di speculazione che non di rado coinvolge, ancora una volta, istituzioni locali e docenti universitari.
Il lavoro nobilita l’uomo (e la donna)? Non sempre. Fra lavoro e nobiltà (d’animo) c’è l’etica. Nel caso specifico, l’impiego offerto, ossia un ruolo nell’ambito delle operazioni inbound (ricezione di chiamate per assistenza da parte di clienti esistenti) eticamente pare superiore all’outbound (il marketing push ossia la classica rottura di scatole a tutte le ore, spesso al di fuori del rispetto della privacy, finalizzata a vendere, vendere, vendere servizi non strettamente necessari e non sempre convenienti…). Va bene come impiego temporaneo per studenti, ma non per laureati i quali potrebbero cadere nella trappola della necessità ritardando notevolmente l’ingresso nel mondo del lavoro che conta ritrovandosi con l’aver oltrepassato i limiti di età imposti da molte aziende per il primo ingresso (generalmente si parla di 25 anni). Inoltre, in Italia, a differenza di altri Paesi, le offerte di lavoro non sono MAI accompagnate dalla pubblicazione del salario percepito. All’estero è tipico confrontare le offerte in base al compenso e lo trovo ragionevole perché il tempo è denaro per tutti, non solo per chi offre lavoro ma anche per chi lo cerca.
Affiliates – Il colmo finale dell’annuncio è quel “RIF: UNILE” che suona tanto come una sorta di codice di affiliazione offline che lascia intendere un rapporto istituzionalizzato fra l’Università e l’azienda di somministrazione di lavoro temporaneo. C’è un ritorno economico per il publisher?
Dispiace assistere a questa lieve caduta di stile che danneggia l’immagine di tutta l’università, includendo i tanti (e fortunatamente sono davvero tanti) che vi lavorano seriamente, ottenendo ottimi risultati che non di rado finiscono in riviste scientifiche internazionali, o semplicemente coloro i quali negli anni si sono laureati e vantano con orgoglio il proprio titolo accademico in ogni angolo del mondo dove sono andati a rifugiarsi per cercare prospettive di impiego migliori.
Aggiornamento: dopo che la notizia si è diffusa in rete, il sito della Facoltà di Economia ha cancellato l’annuncio (la pagina è rimasta vuota) che tuttavia resiste sul sito di Ingegneria, Lettere/Beni Culturali (dove il titolo è stato customizzato sul target “laureati in materie umanistiche” per renderlo più appetibile), Giurisprudenza (senza alcun testo, c’è solo una ‘locandina’ da scaricare) e chissà quali altri siti…
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